mercoledì 1 ottobre 2014
sabato 17 maggio 2014
I Neet...
I Neet, un esercito di giovani e adulti che si sono arresi!
Con quali effetti psicologici sulla persona?
NEET è l'acronimo inglese di Not engaged in Education, Employment or Training, ovvero giovani e adulti non impegnati in attività formative, di studio e che non cercano lavoro.
Questa nuova e disperata parola sta ad indicare un folto gruppo di donne e uomini, di età compresa tra i 16 e i 29 anni, che al momento, per vari motivi, non ricevono un’istruzione, non si preparano ad una professione e non cercano neanche più un’occupazione. I primi studi su questa zona grigia parte dal Regno Unito, già nel 1999 si metteva in evidenza questo fenomeno di ritiro sociale, cresciuto enormemente negli ultimi anni.
In italiano li chiamano i né-né, termine che ne riassume tragicamente la emarginazione, la scomparsa di questi individui, che sembrano “non esistere”, visto che sono fuoriusciti dalla realtà sociale. Scomparsi dalle statistiche, il loro disagio ricompare però altrove, non ancora sufficientemente studiato, ma possiamo immaginare quali siano le conseguenze di una vita senza prospettive, senza progetti, una rinuncia silenziosa e dolorosa all’appartenenza sociale, culturale, affettiva.
In Italia il fenomeno pare acuirsi in particolare nella fascia 25-30 anni, in cui i neet rappresentano il 28,8% della popolazione totale, ed un ulteriore elemento su cui riflettere è dato dalle forti differenze per sesso nell’incidenza: nel 2010, la percentuale delle donne sul totale è superiore a quella degli uomini in tutte le regioni, rappresentando il 55,5% del totale dei Neet nella media del paese, il 53% nel mezzogiorno, il 57,9% nel centro ed il 59,4% nel nord.
Nell’assenza di dati specifici sulle loro condizioni psicologiche, i professionisti del settore sanitario, e non solo, incontrano quotidianamente queste persone, che esprimono un forte disagio a livello comportamentale, fisico e psichico. La sensazione di essere senza speranza, reietti e soli, conduce alcuni ad un annichilimento progressivo, che si manifesta con disturbi d’ansia, abuso di sostanze fino a problematiche di vera e propria spersonalizzazione. I Neet sono persone che non hanno fiducia nelle proprie possibilità ma ancor meno nella società, che hanno una visione negativa della propria esperienza formativa e scolastica, persone che hanno lavorato ma in condizioni non rispettose di alcun diritto, tanto da abbandonare anche la sola speranza di un posto di lavoro soddisfacente.
L’identità di questi soggetti è schiacciata dalla mancanza di progetti ed ambizioni; molte donne neet rinunciano ad una vita professionale dopo la nascita di un figlio, ma questa “scelta” riverbera spesso negativamente sul matrimonio, nel quale si concentrano frustrazione ed ansia che sembrano inspiegabili. Un’insoddisfazione che nasce dalla mancanza di identità personale e sociale, dal non sentirsi parte di una civiltà che sembra camminare spedita verso il futuro lasciando i più fragili a terra.
Questo esercito di più di due milioni di italiani scivola via verso la dispersione di sé, sottraendo le proprie energie alla società e restituendo malessere, familiare, sociale, psichico, con conseguente attivazione dei fenomeni di medicalizzazione e istituzionalizzazione.
Insomma lo stato perde forza lavoro, risorse umane e acquista fruitori di farmaci, utenti per ospedali e centri, famiglie in pezzi e, nel migliore dei casi, una massa di nuovi emigranti.
martedì 11 marzo 2014
La gelosia nella coppia, un modo contorto per sentirsi amati
Molto si dice della gelosia, a chi piace, chi non la tollera, chi la trova parte costituiva dell’amore, chi la ammette come forma di attenzione, chi la subisce come prezzo da pagare per trattenere un amante troppo volubile. Ma parliamo dei casi in cui la gelosia rappresenta una forte limitazione alla libertà personale, non giustificata ma esercitata come un diritto naturale, non contestabile se non con un atto trasgressivo:
•Limitazioni nell’uso del proprio tempo libero, dal divieto di frequentare posti o persone al controllo del tempo (niente palestra, dopo la scuola subito a casa, non voglio che frequenti X, perché ci metti tanto? )
•Limitazioni della vita affettiva, familiare ( limiti frequentazione di parenti, genitori, amici, figli)
•Limitazioni espressione verbale ( dal semplice “no” all’espressione libera del proprio pensiero quando non gradito al partner)
•Limitazioni professionali/lavorative ( obbligo di abbandono del lavoro, limitazioni nell’esecuzione del proprio lavoro e ostacolo al successo professionale, competizione malsana)
Questa tipologia di persona, definita semplicisticamente“gelosa”, ha una paura interna costante del mondo esterno, vissuto come predatorio e aggressivo. La disistima (per sé stesso)che prova lo porta a diffidare delle persone, fino all’estremo della paranoia. La diffidenza va dalle persone amate agli sconosciuti: nel caso delle persone amate, la normale paura di essere abbandonati si somma ad esperienze infantili di separazione/freddezza dei rapporti parentali, ed al dubbio potente di non meritare la felicità, o l’amore;
Vorrei essere amato ma temo che non accadrà, anzi sarò ferito, abbandonato, e me lo merito
di conseguenza, si finisce per odiare ciò che si ama!
Meglio tenersi alla larga dalle persone, dall’amore soprattutto, non fidarsi è meglio,
A quel punto, la persona gelosa tenta di allontanare da sé la paura trasformandola in rabbia, la previsione dell’ abbandono si combatte con il controllo, possesso fisico e psicologico della persona. La paura si perde così nei meandri della mente, la disistima viene soppiantata dal senso di potere
Io non ho paura, altro che abbandono, io sono tutto per lei/lui, e tutto controllo, sono potente
Attraverso questa serie di meccanismi, accantona la sua fragilità e si riveste di forza, autoritarietà, aggressività, tutto sembra tranne che una persona spaventata dall’idea di essere lasciata dal partner.
Questa armatura con il tempo si irrigidisce, sostenuta anche dal partner, inizialmente compiaciuto da tante attenzioni, consigli che sembrano ordini, controlli che appaiono assolutamenti innocui e necessari.
Più spesso, sono le donne a subire e sostenere certi atteggiamenti perché, a loro volta, li interpretano come messaggi di stima
Se mi controlla, mi segue, mi sconsiglia di uscire da sola, mi dice come vestire o come pensare, significa che mi vuole bene, quindi anche io valgo qualcosa
E come messaggi di protezione
Non devi pensare o fare nulla, penso a tutto io, risolvero’ i tuoi problemi
Lui appare un genitore protettivo ma ansioso e autoritario, lei una bambina fragile alla ricerca di un uomo vero, forte…
Se invece è l’uomo la vittima della gelosia insistente della compagna, spesso è un personaggio mite che apparentemente soccombe dinanzi al carattere prorompente di una donna prepotente e aggressiva, ma pronta alla remissività ogni qual volta capisce di aver tirato troppo la corda…
Ovviamente questa bolla esplode prima o poi, perché il dazio da pagare si fa sempre più elevato: lui/lei non acquisisce autostima e quindi spinge i suoi comportamenti aggressivi e controllanti sempre più in là, accusando il partner di essere la causa della sua rabbia
disistima --> paura --> rabbia --> attacco alla persona/società colpevole
il “sottomesso/a” si sente più soffocato che appagato, intuisce che il partner non è la roccia solida che cercava, non si sente più al sicuro ( niente libertà e niente protezione!) e comincia a cercare una “distrazione”, che colmi l’eterno bisogno di conferme ma meno aggressivo: fine dell’idillio, l’armatura si incrina sotto il peso della realtà, le crepe mostrano l’essere indifeso, e la paura sale alle stelle.
Ecco! Un altro abbandono in arrivo, il dramma presagito sta per compiersi, la paura si trasforma in rabbia e viene rivolta ancora una volta all’esterno
dopo tutto quello che ho fatto per lei/lui, non era niente, adesso osa mettermi in disparte, come uno straccio vecchio
La coppia che si fonda su questo reciproco bisogno di conferme, ottenute attraverso il patto io possessore/tu posseduto , non regge più, quindi mette in atto alcune soluzioni non adeguate, in primis il cambio di ruoli:
se non vuoi che ti lasci, da ora non comandi più tu, ma io, adesso mi riprendo la mia libertà, tu non sai dove e con chi mi vedrò, io ti maltratto e tu taci, io ti impongo come comportarti…
ma non cambia nulla, il meccanismo è sempre lo stesso, uno esercita il potere ed un altro lo subisce. Il risultato è una crisi allontanata di poco ed un ciclo perverso di scambi di ruolo. Il tempo passa e la coppia dimentica cosa li ha uniti tempo addietro, perdendo la speranza in un’ unione felice e serena.
Con l’aiuto dello psicologo, ognuno può affrontare queste problematiche, perché una volta riconosciute, sarà naturale ricercare delle soluzioni più adeguate e pacificanti. Rinunciare alla gelosia sarà semplice per chi riconoscerà che il possesso non esiste e soprattutto, non serve, perché l’autoconferma è l’unica risposta. Possedere una persona non rende meno soli, condividere la felicità invece sì.
Guardare al partner come persona distinta e libera, significa che le azioni dell’altro non ci definiscono, non ne dipendiamo, non accrescono né riducono il nostro inestimabile valore interiore
Se lei mi ama, sono felice, ma ciò non cambia il mio valore interiore; se lei mi lascia, mi rattristerò, ma ciò non cambia il mio valore interiore: resto amabile, valido, utile, importante!
La coppia non è un campo di battaglia dove dimostrare il proprio valore distruttivo, la supremazia, la forza, ma un posto caldo dove acquietarsi, condividere, esprimere tutta la ricchezza di sentimenti e pensieri che naturalmente ciascuno di noi possiede.
A volte dimentichiamo come si fa, ma basta poco per ritrovare la strada.
giovedì 26 settembre 2013
La scelte scolastiche per i bambini, banco di prova dei genitori !
Il successo inizia all'asilo?
In molti film americani si evince l’importanza estrema della
scelta scolastica, in una cultura meritocratica dove la storia di un individuo
si decide già a 3 anni, inserire il proprio pargoletto nell’asilo rinomato e
superattrezzato è necessario, indispensabile per arrivare al successo da
grandi. Allora si richiedono raccomandazioni, si scomodano amici e funzionari,
si combatte con il coltello tra i denti per garantirsi un posticino in quella
scuola che aprirà le porte verso un futuro luminoso e professionalmente
vincente.
Anche da noi molti genitori vivono la scelta scolastica, a
partire dall’asilo, con molte ansie e preoccupazioni, paura di scegliere un
ambiente sbagliato, di affidare il bimbo a persone incompetenti, paura di
influenzare negativamente lo sviluppo psicologico e cognitivo dello stesso. Le
cronache recenti purtroppo ci hanno mostrato casi di violenza ai danni di inermi bambini proprio
in quelle strutture dove dovrebbero essere protetti e amati. Ovviamente tutti
desiderano il meglio per i propri figli, ma bisogna accertarsi di cosa sia “il
meglio”, quali sono le priorità e cosa sia velleitario, le aspettative scolastiche
devono essere adeguate all’età del bambino, nel rispetto delle disponibilità e possibilità
dei genitori.
Molte persone trascorrono mesi a raccogliere
informazioni, fare colloqui, parlare con amici e conoscenti, ponderando vantaggi
e svantaggi di questo o quell’istituto, paragonando le attività
extracurriculari o la media di recite ed esibizioni, scervellandosi su quale
lingua straniera scegliere, come se dalla bontà di queste scelte dipendesse tutto
il futuro dello studente in erba, ovvero scelta errata, niente futuro d'eccellenza!
Alcuni genitori, stremati e terrorizzati, alla fine di questo lavoro di ricerca e
supervisione abbandonano la sfida per il primo anno d’asilo del bambino
dichiarando di non sentirsi ancora pronti; altri puntano sulla scuola prescelta operando un costante controllo su attività
svolte e amicizie, confrontando le competenze acquisite dal bambino con figli di amici e parenti, con il terrore di
scoprire che altrove si fa di più e meglio!
Gli anni della scuola dell’infanzia sono dedicati alla prima
forma di socializzazione, i bimbi per la prima volta escono dall’ambiente
familiare e trascorrono il loro tempo in un ambiente estraneo, imparano a gestirsi da soli, a relazionarsi tra pari,
apprendono che non sempre si ha la meglio, piccole frustrazioni che li aiutano
a misurarsi con se stessi e gli altri, guardano il mondo attraverso gli occhi
di un altro bimbo, sognano e inventano storie in un luogo deputato a ciò.
Questi sono gli aspetti fondamentali, esplorare, conoscere, relazionarsi,
arrabbiarsi e piangere e scoprire che un amichetto ti offre il suo fazzolettino,
scoprire nuove figure adulte affidabili e affettuose, cimentarsi in piccole
prove che fanno emergere abilità, competenze e qualità personali, senza
giudizio, un equilibrato sostegno alla Persona nella sua originalità.
Cosa chiedere di più?
Nulla di meno sicuramente, il resto è ininfluente per un sano sviluppo del bambino! Sostenere
la crescita di un bambino significa aiutarlo a conoscersi, dal punto di vista
emotivo, sociale, intellettivo, perché questa autocoscienza genera:
· gioia e serenità, voglia di vivere ed esplorare con curiosità,
· capacità di affrontare gli ostacoli, psicologici
o pratici
· capacità
di vivere le emozioni con intensità,
· stimola la fantasia e i desideri che sono alla
base delle ambizioni e della forza di volontà,
· autostima, la spina dorsale dell’essere umano
Questi sono i mattoncini indispensabili per uno sviluppo sano
ed equilibrato, la base dalla quale si parte per costruirsi un futuro, molto di
più che la mera acquisizione di competenze, l’attitudine alla lotta ambiziosa
per primeggiare che provoca al contrario isolamento, allontanamento dalle
proprie emozioni e subalternità delle relazioni ai risultati. “Essere sempre i
migliori” è un’esigenza degli adulti, bisognosi di conferme, è un obbiettivo
non realistico che rovina la spontaneità e la creatività del bambino, soffoca
le sue emozioni e lo trasforma in una macchina,
performante e senza senso se non nella competizione, senza gioia e
divorato dall’ansia( “ e se dovessi fallire, perdere…?).
La scuola è il banco di prova dei genitori, saremo promossi o
bocciati?
martedì 24 settembre 2013
Uomini violenti e donne sottomesse: chi sono?
Uomini violenti e donne sottomesse: chi sono?
Molti uomini si chiedono come sia
possibile infierire su una donna, la propria compagna, costantemente e con
tanto accanimento; molti uomini non comprendono in generale cosa significhi
esercitare violenza su chicchessia, figurarsi su di una persona più debole
fisicamente, incapace di reagire e in più oggetto d’amore. Molti uomini
soffrono nel vedere una donna piangere e disperarsi, e spesso sono mossi da un
istinto protettivo nei suoi confronti che li induce a preservarla, almeno fisicamente.
Molte donne si chiedono al contrario
come sia possibile accompagnarsi ad un uomo che per abitudine alza le mani,
tira calci e pugni, ti manda all’ospedale una volta, due, tre, fino a
cancellarti dalla Terra. Molte donne trovano insopportabile un’aggressione anche
solo verbale e sono fermamente convinte che mai potrebbero accettare di essere
trattate come bambole da fare a pezzi.
Eppure alcune donne accettano,
subiscono, e alcuni uomini abusano, aggrediscono, spezzano, uccidono, psicologicamente
e fisicamente.
La rabbia potente che prova l’uomo
trova un capro espiatorio, un luogo su cui abbattersi e sfogarsi, un regno nel
quale può controllare e comandare senza pericolo di ribellioni o smentite, una
persona che con l’assenso gli conferma “…si, tu sei il mo padrone, e sono
felice così…”
Ma quando lei invece smentisce,
contrasta, si oppone, mostra di essere un individuo non sottomesso, la bolla
scoppia “…tu non sei il mio padrone, non ti appartengo e mi oppongo a ciò che
vuoi…”
La rabbia esplode, volta a ripristinare
l’ordine, il controllo “…ti sbagli, adesso ti mostro io chi comanda, il più
forte…”
Questi uomini e queste donne vivono
una realtà dolorosa, immersi nelle sabbie mobili di relazioni insane, non sanno
come uscirne, non sanno a chi chiedere aiuto, si vergognano della propria
condizione e mantengono il silenzio per anni, con la motivazione di voler
salvaguardare l’amore, la famiglia…
Le donne vittime di violenza
domestica sono persone di ogni età, ceto sociale, livello culturale, e così gli
uomini violenti, dal pregevole professionista al capace impiegato, operaio,
sindacalista, medico, disoccupato. Sono i nostri vicini di casa, la giovane
commessa o l’educato avvocato, il papà che porta il figlioletto a scuola, la
mamma che fa la spesa insieme a noi, eppure portano un segreto, che non
confidano neanche a se stessi, per paura del giudizio proprio e altrui.
Entrambi sono abituati a questi
exploit violenti, ma non ne percepiscono fino in fondo la perversione, l’insensatezza
e la pericolosità: queste relazioni sono insane e distruggono le persone che le
vivono! L’amore non c’entra nulla, il possesso è tutto!
Parenti ignari non immaginano tanto
orrore, parenti informati non sanno come intervenire, le donne pregano di
riuscire a resistere alle botte, gli uomini pregano di non perdere più la
calma. In molti casi però si può spezzare l’incantesimo senza esserne
distrutti, ma bisogna iniziare da se stessi, armati di coraggio, a testa alta, ammettendo
di dover affrontare un problema importante ma con la determinazione di chi sa:
sapere è potere!
Armati di tanta dignità, scegliere di
parlare, scegliere di desiderare una vita migliore, scegliere di amare senza
farsi del male, scegliere di farsi aiutare, consigliare, sostenere,
abbracciare. Scegliere di vivere e non sopravvivere, preservare il proprio
corpo come un tempio, scegliere di voler cambiare e migliorare, farsi aiutare.
giovedì 5 settembre 2013
Rientro pausa estiva: lo stress di chi rientra, di chi non voleva partire, e di chi non ha fatto vacanze!
Rientro pausa estiva: lo stress di chi rientra, di chi
non voleva partire, e di chi non ha fatto vacanze!
Quest’anno vorrei porre l’attenzione sull’ambiguità del cosiddetto
“stress da rientro”, ovvero uno stato di insofferenza e leggero malessere che
sembra cogliere molti al rientro delle ferie. A parte l’ovvia difficoltà a
rientrare nei ritmi lavorativi, familiari e cittadini quotidiani dopo aver interrotto
la routine per alcune settimane, mi ritrovo spesso a confrontarmi con persone
che mostrano una forte insofferenza, non spiegabile con il classico “mal da
rientro”.
Mi accorgo che alcuni avvertono una sorta di delusione
legata alle aspettative vacanziere, ovvero dopo aver atteso per un anno intero
le 2-3 settimane di meritata libertà, al rientro appaiono scarichi e scontenti,
eppure raramente per problemi imprevisti, molto più spesso la vacanza in sé non
ha rappresentato un momento di cambiamento rispetto alla quotidianità, anzi, in
alcuni casi sembrano organizzate in modo da garantire una totale continuità.
Vacanza, dal latino vacantia, essere
sgombri, vacui… una nuova modalità da sperimentare, magari per accogliere
cose nuove!
Di qui lo stress, tanta attesa per nulla, e dinanzi un
nuovo anno all’ insegna della routine!
Allora
si sentono meglio coloro che, al contrario, non aspettandosi nulla di buono dalle
vacanze, preferiscono la loro quotidianità e attendono con ansia la fine di questo
breve periodo di stop per tornare a casa, e rincantucciarsi lì dove tutto è
noto.
Ma forse i più sofferenti potrebbero essere coloro che,
avendo mille idee per le vacanze, non possono realizzarle per motivi
lavorativi, economici, di salute.
Allora chi sono coloro che non risultano stressati?
Quelli che sanno sfruttare il tempo e le possibilità nel
migliore dei modi, conoscendo i propri desideri e volontà, orientano le proprie
esperienze nella direzione giusta, allora anche pochi giorni di vacanza sono
sufficienti a ricaricarsi, anche poche ore nel weekend possono essere foriere
di benessere: ovunque siamo, in casa, tenda, albergo, isola o montagna, conta
se quello è il luogo dove vorremmo essere, con le persone con le quali vorremmo
essere.
Se non è così, il malessere non ci aspetta al rientro, ma
ci accompagna.
giovedì 7 febbraio 2013
Come convincere una persona cara ad incontrare lo psicologo
Molte persone mi contattano per
raccontarmi la loro preoccupazione ed ansia relativi a persone care: figli, partner,
amici, che mostrano segnali preoccupanti di disagio, sintomi fisici, un
malessere psicologico che richiederebbe un intervento professionale. Ma cosa
fare quando la persona interessata si rifiuta di incontrare lo psicologo? Come
comportarsi se lei/lui non ammette la propria difficoltà e rifiuta di farsi
aiutare?
Quando ricevo queste telefonate,
colgo tutta la preoccupazione del familiare, affranto e impotente dinanzi alla
chiusura della persona cara. Poiché tutti hanno timore di scatenare la loro rabbia
e magari un allontanamento, mi chiedono come è meglio porsi, se sollecitare
dolcemente o imporsi, parlare o fingere distacco, come comunicare affetto e non
solo controllo o ansia.
Ovviamente l’approccio cambia se
parliamo di un adolescente o di un adulto, se la problematica è ancora leggera
o se siamo di fronte ad una sofferenza importante e prolungata nel tempo.
Recentemente, una signora mi ha
chiesto come condurre la figlia ad un incontro con me, ipotizzando l’inizio di
un disturbo del comportamento alimentare. La giovane non condivideva con la
madre né l’ipotesi né l’intervento, e quindi si rifiutava di incontrarmi,
temendo di essere analizzata e criticata, sottoposta a domande invadenti da una
perfetta estranea.
Chiunque non decida
spontaneamente di affidarsi ad uno psicologo, teme soprattutto due cose:
1) essere costretto a parlare di
sé, a raccontare comportamenti, emozioni, segreti, senza potersi opporre, un
po’ come quando si va dal dottore che ci dice “alzati, spogliati, fai questo e
quello, cosa mangi, fumi, bevi...”, insomma un esame al microscopio della
propria vita!!
2) fare i conti con una realtà
negata e rimossa, prendere atto di una propria difficoltà, limite o
comportamento dannoso e/o pericoloso, e la sua origine psicologica mette
veramente tanta paura!
Quindi consiglio sempre di rassicurare – il giovane o adulto che
sia – sul fatto che l’incontro con lo psicologo ha delle regole ben precise,
innanzitutto il totale rispetto per
l’intimità della persona, che ha tutto il diritto di tener per sé i suoi
segreti fin quando non sentirà di potersi fidare di me; in secondo luogo
bisogna sottolineare che lo psicologo è un professionista ingaggiato dal
cliente, lavora per lui perseguendo gli obbiettivi decisi insieme, insomma è un
prezioso collaboratore al suo servizio!
Avere un incontro con lo psicologo significa creare un luogo e uno spazio
gestito dal cliente, rispettoso dei suoi tempi, silenzi o reticenze, dove
non esiste giudizio né critica personale; un luogo deputato alla riflessione e
alla conoscenza di sé, dove poter esprimere liberamente pensieri ed emozioni,
dove approfondire le dinamiche che intrappolano la mente in un circolo vizioso,
impedendogli di esprimersi al meglio.
Se la persona è ancora indecisa o
chiaramente contraria, il congiunto può offrirsi di iniziare un percorso insieme,
avendo come obbiettivo il miglioramento della loro relazione, e non il
disagio dell’altro.
Ad esempio, una moglie stanca del gioco
compulsivo del marito inizia con lui un percorso per salvare il proprio
matrimonio, in un secondo momento lui decide di farsi seguire per risolvere la
sua compulsività. Un papà viene in terapia con il figlio per recuperare un
rapporto sfilacciato, i due si chiariscono e si avvicinano, superano il passato,
il papà trova il modo per comunicare in modo efficace e affettuoso con il
figlio; subito dopo, il giovane si fa aiutare dal padre ad abbandonare l’uso di
sostanze stupefacenti.
Non sempre il primo obbiettivo
deve essere quello di far sparire il disagio psicologico, meglio comprenderne
prima il messaggio sotteso, così che il portatore del disagio possa sentirsi
veramente compreso, e non smontato perché considerato “malfunzionante”.
A nessuno piace soffrire,
ma soprattutto essere additati e giudicati problematici, inadeguati e bisognosi
d’aiuto, tutti vogliono dimostrare di potercela fare da soli, quindi se volete
coinvolgere i vostri cari dovete mostrarvi sinceramente comprensivi e non
giudicanti, disponibili ad affiancare la persona anche in terapia, senza
pretese di cambiamento o trasformazione,
a nessuno piace essere trattati come un oggetto a cui voi volete rifare il look,
piuttosto come un sistema – che comprende tutti!- finito in un tunnel e che
vuole trovare la strada per tornare alla luce.
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